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La digital tax è meglio della web tax?

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Dopo la “web tax”, velocemente mandata in soffitta, il Governo Renzi ha predisposto una proposta di legge volta ad introdurre la c.d. “digital tax”, ossia un insieme di norme in materia di imposizione diretta volta a ridurre il fenomeno dell’elusione fiscale nell’economia digitale nei rapporti tra internet service provider stranieri e consumatori italiani.

Questo è un articolo scritto dal mio collega fiscalista allo studio legale DLA Piper, Giovanni Iaselli, condito da alcuni miei piccoli contributi che spero non abbiano creato solo danni.

Da dove nasce l’esigenza di una digital tax? 

La digital tax risponde al bisogno di introdurre un set di norme ad hoc per l’economia digitale dove la produzione del reddito spesso avviene in un contesto dove il collegamento tra l’attività produttiva e il territorio è di difficile (se non di impossibile) determinazione.

Individuare dove sono territorialmente ubicati il venditore e l’acquirente e/o dove avviene la consumazione del bene/servizio in molti casi si presta a valutazioni arbitrarie.

Questo stato di cose fa sì che il reddito prodotto per le vendite in Italia, sulla base delle disposizioni esistenti, risulti essere soggetto alla sola potestà impositiva dei Paesi dove risiedono gli operatori dell’e-commerce, solitamente a bassa fiscalità.

Da qui la domanda di fondo:

è corretto che tale ricchezza sia tassata esclusivamente in tali paesi oppure, tenuto conto del funzionamento del commercio elettronico, risponderebbe maggiormente a criteri di equità fiscale prevedere la tassazione nel paese in cui tali beni e servizi sono consumati?

Cosa prevede la digital tax?

Muovendo da tale dilemma e sulla scorta delle prime indicazioni fornite dell’OCSE nella primavera del 2014 la proposta di legge prevede essenzialmente:

  1. La modifica del concetto di “stabile organizzazione” e l’introduzione della cd. “stabile organizzazione virtuale”, ossia quella presenza in Italia del soggetto non residente che in definitiva consente di “attrarre” a tassazione in Italia i redditi ivi prodotti. La norma presume l’esistenza di una “stabile organizzazione virtuale” qualora si realizzi, per un periodo di almeno 6 mesi, una presenza continuativa di attività online riconducibili all’impresa non residente tramite la quale siano generati pagamenti non inferiori a Euro 5 milioni;
  2. L’applicazione di una ritenuta alla fonte nella misura del 25% da parte degli operatori finanziari coinvolti nei pagamenti eseguiti dai clienti italiani privati nei confronti dei fornitori e-commerce non residenti (cd. operazioni B2C);
  3. L’applicazione di una ritenuta alla fonte del 25% nel caso in cui scatti la presunzione dell’esistenza di una stabile organizzazione virtuale per i pagamenti effettuati dalle società italiane nei confronti e-commerce providers non residenti (cd. operazioni B2B). Anche in tale ipotesi la ritenuta viene applicata dagli intermediary finanziari intervenuti nel pagamento.

Come funziona la norma

La relazione alla proposta di modifica pone in risalto il fatto che l’e-commerce è in costante mutamento ed evoluzione, assumendo forme imprenditoriali che mal si conciliano con gli ordinari criteri di tassazione. Ciononostante, secondo i proponenti occorre focalizzare l’attenzione sui tre soggetti principali che svolgono un ruolo preminente in tale settore:

  • I fornitori,
  • gli istituti finanziari e
  • i clienti finali.

In particolare, come visto, un ruolo centrale viene svolto dalle banche e dagli intermediari finanziari che intervengono nei pagamenti, i quali potrebbero aiutare l’Amministrazione finanziarie nel tentativo di arginare i cd. fenomeni di profit shifting.

Difatti, lo scopo principale della proposta non è quello di introdurre una nuova tassa o imposta piuttosto di introdurre diverse norme volte a ridurre i fenomeni di elusione fiscale che secondo uno studio del 2013 del Politecnico di Milano vi sarebbero circa una decina di miliardi di Euro di imponibile che sfuggirebbero alla tassazione italiana restando soggetti a tassazione, comunque ridotta o nulla, nei paesi di residenza.

Inoltre, la previsione di un concetto di “presenza stabile digitale” (diverso da un mero concetto di stabilità intesa in senso fisico) costituirebbe lo strumento principe per far sì che i profitti derivanti dalle attività di e-commerce siano tassati nello Stato (Italia in questo caso) in cui i bei o servizi sono effettivamente consumati. In ogni caso, laddove dovessero crearsi fenomeni di cd. doppia imposizione (sia in Italia che nel paese di residenza, sulla base delle proprie disposizioni domestiche) questi sarebbero risolti mediante il riconoscimento al soggetto non residente di un credito d’imposta per quanto già pagato in Italia.

Che criticità per la digital tax?

Le norme domestiche che si vorrebbero introdurre dovrebbero fare i conti con le disposizioni previste dalle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni stipulate dall’Italia le quali, ad esempio, non prevedono un concetto di “stabile organizzazione virtuale” e, che per espressa previsione (art. 169 TUIR), trovano sempre applicazione se più favorevoli rispetto alle norme domestiche.

È evidente che il provvedimento in esame, che ha già fatto parlare e continuerà a far parlare tanto, sarà oggetto di ulteriore analisi e modifiche.

Secondo alcuni autori, la cd. “digital tax”, riguardando esclusivamente le imposte dirette (e non l’IVA regolata a livello UE) dovrebbe incontrare minori resistenze ed avere un processo di approvazione abbastanza semplice. Al contrario secondo altri, condivisibilmente, tenuto conto che le norme previste impatterebbero sulle operazioni cross-border coinvolgendo più paesi, la “digital tax” è destinata ad infrangersi dianzi alle norme convenzionali le quali, come visto, trovano applicazione se più favorevoli per il contribuente.

Ad esempio, posto che il concetto di “stabile organizzazione” previsto da tali trattati contro le doppie imposizioni non contempla (ancora) la “stabile organizzazione virtuale” bensì si fonda su un concetto fisico quale la “sede fissa di affari”, è evidente che la nuova norma domestica è destinata a trovare applicazione solo allorquando l’e-commerce provider sia residente in un paese che non ha stipulato con l’Italia una convenzione contro le doppie imposizioni.

A questo punto non resta che seguire con attenzione l’iter di tale proposta e semmai come verrà adeguata alle diverse criticità tecniche e di business sollevate dagli operatori. Il Governo italiano è deciso a seguire le tracce segnate dall’OCSE e della UE e non è da escludere che la proposta sia un segnale lanciato alla UE per intervenire quanto prima con provvedimenti di più ampio respiro e di diretta applicazione nei diversi paesi europei. L’entrata in vigore dovrebbe essere il 1° gennaio 2017 ma non si esclude che il provvedimento sia già cristallizzato all’interno della Legge di Stabilità per il 2016 (con efficacia sospesa).

La digital tax funzionerà?

Il tema è certamente di estrema attualità soprattutto in un periodo come questo caratterizzato da diverse riforme fiscali. Tuttavia, pare confermato quanto asserito da più parti circa la necessità e l’urgenza di un intervento strutturale a livello dell’Unione Europea, poiché eventuali soluzioni unilaterali rischiano di essere inefficaci e al tempo stesso potrebbero impattare negativamente sul livello degli investimenti in tale settore nel singolo paese.

L'articolo La digital tax è meglio della web tax? è stato pubblicato originariamente su Tech Economy - The Business Value of Technology.


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